mercoledì 7 marzo 2018

"Malattie rare: parliamone", una giornata con Telethon e i medici del'ospedale Ca' Foncello di Treviso


"Malattie rare: parliamone", una giornata con Telethon e i medici del Ca' Foncello
"Malattie rare: parliamone", una giornata con Telethon e i medici del Ca' Foncello
“Malattie rare: parliamone. I nostri medici raccontano”. E’ il titolo dell’incontro che si aprirà sabato 10 marzo alle 9.00 a Palazzo dei 300 di Treviso. E’ stato presentato oggi dal Direttore sanitario dell’Ulss 2 Marco Cadamuro Morgante, dal vicesindaco Roberto Grigoletto, dalla rappresentante di Telethon Antonella Trevisiol e dal prof. Carlo Agostini, Direttore dell’Unità di I Medicina Interna del Ca’ Foncello ed esperto in malattie rare, in rappresentanza di tutti i medici coinvolti nell’iniziativa. Non sarà un convegno scientifico ma un evento divulgativo aperto al pubblico, dove al cittadino è offerta l’opportunità di ricevere un’informazione adeguata e comprendere che se pur esistono le malattie rare è anche vero che sono sempre più numerosi i progetti contro di esse e le persone affette non sono lasciate sole.

"Malattie rare: parliamone", una giornata con Telethon e i medici del Ca' Foncello
Una malattia viene definita rara quando la sua prevalenza - intesa come il numero di casi presenti su una data popolazione - non supera la soglia stabilita dalla Unione Europea di 5 casi su 10000 persone. Nel 90% dei casi è dovuta ad una predisposizione genetica. A Treviso, presso il reparti del professor Carlo Agostini, ad esempio, sono numerosi i pazienti provenienti da ogni parte d’Italia che afferiscono per malattie rare immunologiche. Tra le patologie seguite dal reparto: le immunodeficienze primitive, le vasculiti, le malattie autoimmuni, le malattie autoinfiammatorie, la sarcoidosi e la fibrosi polmonare.

"Malattie rare: parliamone", una giornata con Telethon e i medici del Ca' Foncello
Ma il quadro delle Malattie rare è molto più ampio e al professor Carlo Agostini (che sarà il primo relatore del convegno) si succederanno: dr. Domenico Marco Bonifati, direttore della Neurologia (Le malattie rare neurologiche tra innovazione e territorio); prof. Angelo Paolo Dei Tos, direttore Anatomia Patologica (I tumori rari: quali risposte in Italia e in europa); dr. Giuseppe Scarpa, Direttore Oculistica (Le retinopatie nei prematuri); dr.ssa Licia Turolla responsabile Genetica Medica (Malattie rare: una storia vera); dr.ssa Cinzia Zanatta (Malattie rare in Chirurgia Pediatrica); dr. Andrea Martinuzzi, Direttore dipartimento Neuroriabilitazione Ircss Medea (Sinergia tra ricercatori e associazioni: progettare insieme per rispondere meglio); dr. Ignazio Roiter, direttore 2. Medicina Interna (Un’esperienza sul campo); dr. Roberto Chiesa, ricercatore Mario Negri di Milano (Malattie da Prioni: in laboratorio alla ricerca di una cura); dr. Renato Ostuni, ricercatore Tiget San Raffaele di Milano (La terapia genica).

tratto da Treviso Today 7 marzo 2018





giovedì 1 marzo 2018

Giornata delle malattie rare: ce ne sono 7 mila e in Italia i colpiti sono 2 milioni

Le nuove sfide della medicina spinte dallo slogan del 2018 «Show your Rare, Show you care» che vuol dire «Mostra che ci sei, al fianco di chi è Raro!»


Fibrosi cistica, ipoparatiroidismo, epidermolisi bollosa, fibrosi polmonare idiopatica, immunodeficienze primitive, amiotrofia spinale infantile, malattia di Stargardt, talassemia. Sono solo alcuni dei nomi, certi difficili addirittura da pronunciare, delle circa 7mila malattie rare ad oggi conosciute.

E’ per i 300 milioni di malati rari in tutto il mondo che oggi si celebra la Giornata mondiale delle malattie rare. In Italia, dove i malati rari si stimano siano da 1 a 2 milioni, questa giornata è coordinata da UNIAMO Federazione Italiana Malattie Rare Onlus. Lo scopo è quello di migliorare la qualità della vita delle persone colpite da una malattia rara, attraverso l’attivazione, la promozione e la tutela dei diritti vitali dei malati rari nella ricerca, nella bioetica, nella salute, nelle politiche sanitarie e socio-sanitarie.

SPESSO ATTESE DAI 5 AI 30 ANNI PER DIAGNOSI CERTE  
Si definisce rara una malattia che colpisce non più di 5 persone ogni 10mila. All’interno di queste patologie rientrano anche quelle definite ultra-rare o rarissime perché colpiscono meno di 1 persona ogni milione. In Italia, il 25% dei pazienti rari attende da 5 a 30 anni per ricevere conferma di una diagnosi, uno su tre deve spostarsi in un’altra regione per averne una esatta.

E’ evidente che per chi vive con una patologia rara, ogni giorno è una sfida fatta di piccole e grandi preoccupazioni. «Avere il supporto della propria comunità può alleviare molto il senso di isolamento delle famiglie che le devono fronteggiare», dice UNIAMO.

LE CONOSCENZE SULLE MALATTIE RARE SONO INSUFFICIENTI  
Ma oggi è anche la giornata per promuovere la ricerca scientifica, che è fondamentale per migliorare la vita delle persone, fornendo loro risposte e soluzioni, sia dal punto di vista delle cure disponibili sia da quello di una migliore assistenza.
«La comunità dei pazienti ha bisogno dei ricercatori, ma chi fa ricerca ha bisogno della partecipazione dei pazienti per far sì che i risultati siano realmente significativi per la comunità dei rari», dice UNIAMO. Oggi lo scenario sta cambiando, ma ancora le conoscenze sulla complessità delle malattie rare sono insufficienti.

La Giornata è il momento di maggiore attenzione voluto dai pazienti per lanciare un appello globale a decisori politici, ricercatori, operatori sanitari e all’opinione pubblica affinché si impegnino per migliorare le condizioni di vita delle persone e delle famiglie che si trovano ad affrontare una malattia rara. Ognuno per il proprio campo di competenza. In particolare, la campagna di quest’anno chiede all’opinione pubblica di mobilitarsi a fianco della comunità dei Rari.

«Show your Rare, Show you care» è lo slogan 2018 che vuol dire “Mostra che ci sei, al fianco di chi è Raro!».

PASSI IN AVANTI SULLE MALATTIE NEUROLOGICHE RARE  
Importanti progressi sono stati raggiunti nella ricerca sulle malattie neurologiche rare, che rappresentano circa 40% del totale delle malattie rare.
«Si tratta della cura di alcune malattie neurodegenerative come l’Atrofia Muscolare Spinale tipo I e II - spiega Antonio Federico, Direttore della Clinica Neurologica di Siena - per la quale la diagnosi precoce e l’avvio tempestivo della terapia produce effetti importanti sulle funzioni motorie, altrimenti progressivamente alterate. Inoltre, buone notizie arrivano anche per la cura delle malattie metaboliche rare interessanti il sistema liposomiale e dell’Atrofia Ottica di Leber».

SPORTELLO LEGALE PER AIUTARE I MALATI RARI NELLA BUROCRAZIA  
Tra le iniziative previste per questa giornata c’è il lancio di un nuovo servizio dedicato ai pazienti: lo Sportello Legale «Dalla parte dei Rari». L’iniziativa, ideata dall’Osservatorio Malattie Rare, nasce per aiutare le persone a orientarsi nei grovigli del mondo legale, fiscale e burocratico, all’interno dei quali è spesso facile smarrirsi.

Il servizio, completamente gratuito sarà attivo da oggi (osservatoriomalattierare.it/sportello-legale-omar-dalla-parte-dei-rari). La rubrica di consulenza legale è curata da Roberta Venturi, avvocato e ricercatore di OSSFOR (Osservatorio Farmaci Orfani) e da Ilaria Vacca, caporedattore di Omar. «Omar è da sempre accanto ai pazienti – dice Ilaria Ciancaleoni, direttore dell’Osservatorio – con questo servizio possiamo offrire un’ulteriore aiuto pratico alle tante persone che si trovano in difficoltà. Vogliamo inoltre rafforzare il nostro canale di comunicazione con il Ministero della Salute, con Aifa, con l’INPS e con le Regioni e le ASL, attori fondamentali per la tutela delle persone con malattia rara».

SONO TANTE LE INIZIATIVE PER QUESTA GIORNATA IN TUTTA ITALIA  
Importante evento promosso da UNIAMO, in collaborazione con EURORDIS, è l’esposizione al Parlamento Europeo, a Bruxelles, fino al 2 marzo, del progetto «RARE LIVES, il significato di vivere una vita rara», il viaggio fotografico del fotografo Aldo Soligno attraverso l’Unione Europea per raccontare, con straordinaria intensità, la quotidianità di coloro che soffrono di una patologia rara.

Un’indagine sulle loro necessità, le loro speranze, le loro difficoltà, ma soprattutto le loro piccole e grandi gioie quotidiane. L’obiettivo è coinvolgere e sensibilizzare i Membri del Parlamento al problema delle malattie rare attraverso i volti e le voci dei pazienti ritratti dal fotografo in 7 Paesi Europei. Rare Lives è un progetto sviluppato insieme ad UNIAMO F.I.R.M Onlus con il supporto non condizionato di Sanofi Genzyme. Ma gli eventi saranno tanti altri. Attraverso la Penisola saranno oltre 100 le iniziative di sensibilizzazione che si svolgeranno in diverse città. 

tratto da La Stampa 1 marzo 2018

lunedì 18 settembre 2017

L'elenco aggiornato delle malattie rare 2017 riconosciute per ottenere l'esenzione

E' stato da poco pubblicato l'elenco aggiornato delle malattie rare 2017 riconosciute per ottenere l'esenzione, per aiutare i pazienti ad orientarsi fra le tante innovazioni apportate ai LEA 2017. Per l’esattezza, a disposizione dei pazienti vi sarà un elenco dei nuovi codici (in ordine alfabetico) di tutte le patologie esenti, con tutte le indicazioni per ottenere l’esenzione.
L’elenco, scaricabile gratuitamente dal sito www.osservatoriomalattierare.it, è stato realizzato dall’Osservatorio Malattie Rare in collaborazione con Orphanet-Italia, e vuole essere uno strumento utile non solo per i pazienti, ma anche per le ASL e per coloro che operano nel mondo della Sanità, per facilitare l’accesso all'esenzione.
Lo scorso 15 settembre sono già entrati in vigore i nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), dove è stato aggiornato l’elenco delle malattie rare con esenzione. Tale elenco introduce 134 nuovi codici di esenzione, che corrispondono a un totale di 201 malattie.
All'interno della guida è adesso possibile trovare una breve descrizione delle nuove malattie rare esenti, indicazioni per ottenere l’esenzione e alcune indicazioni per ottenere altri benefici, sia di natura economica che non economica.

mercoledì 25 gennaio 2017

Insonnia familiare fatale: la speranza è negli antibiotici

Descritta per la prima volta in provincia di Treviso, l’insonnia familiare fatale porta alla morte nel giro di due anni. Una possibile soluzione potrebbe essere la somministrazione di un antibiotico per ritardare i sintomi.

In questi giorni diverse testate nazionali riportano la storia – tratta dal The Independent e dalla tv australiana Nine News - dei “fratelli che non dormono mai” potenzialmente affetti da insonnia familiare fatale. I due ragazzi australiani in realtà, a dispetto dei titoli sensazionalistici, non hanno ancora sviluppato la malattia che non permette loro di addormentarsi ma non è detto che nel giro di poco tempo sviluppino i primi sintomi. In pochi sanno però che la patologia è stata scoperta in Italia da un medico trevigiano e nonostante non abbia ancora una valida cura la ricerca è tutt’altro che ferma.

L’UOMO CHE NON DORME
L’insonnia fatale familiare è una malattia genetica rara appartenente al gruppo delle malattie prioniche. L’organo colpito, come per tutte quelle del gruppo, è il cervello che si “intasa” con accumuli di proteine. I sintomi sono devastanti: sudorazione continua, tremori, disturbi comportamentali, decadimento cognitivo, inarrestabile dimagrimento e, sintomo principe, l’impossibilità a prendere sonno. A soffrirne sono circa 200 persone al mondo, 5 le famiglie colpite in Italia dal disturbo. Generalmente la patologia compare intorno ai 50 anni e il decorso non lascia scampo: l’aspettativa di vita varia dai 6 mesi ai 2 anni dalla comparsa dei sintomi.

INDAGINI SUI REGISTRI DI BATTESIMO
Anche se la malattia è stata descritta su una rivista scientifica – il New England Journal of Medicine - a metà degli anni ’80, le prime osservazioni dirette dei sintomi sono state descritte a partire dal 1970. I primi referti che descrivono la misteriosa patologia sono a firma di Ignazio Roiter, medico dell’ Azienda ULSS 9 - Ospedale Ca' Foncello di Treviso. Osservando la morte di diverse persone all’interno della stessa famiglia il medico veneto cominciò lo studio a ritroso dell’albero genealogico familiare. Analizzando i registri di battesimo e morte riuscì a ricostruire sommariamente il tipo di ereditarietà. Oggi, grazie alle analisi genetiche, si è riusciti a stabilire che in tutti i casi di malattia è presente una mutazione genetica a livello del cromosoma 20. Attenzione però ad interpretare il risultato: possedere la mutazione non equivale a sviluppare necessariamente l’insonnia familiare fatale.

LA SPERANZA IN UN ANTIBIOTICO
Cure, al momento, purtroppo non ce ne sono. Buone speranze giungono però dalla ricerca. Diversi studi hanno dimostrato che nelle malattie prioniche (l’insonnia familiare è una di queste, così come il morbo di Creutzfeldt-Jakob) l’utilizzo delle tetracicline – una categoria di antibiotici - potrebbe migliorare i sintomi del disturbo. Recenti analisi effettuate in animali da laboratorio hanno infatti dimostrato che queste molecole agiscono impedendo l’accumulo a livello cerebrale delle proteine prioniche tipiche di queste malattie. Partendo da questa osservazione sono ora in fase di sperimentazione 4 studi clinici (uno anche in Italia in provincia di Treviso) nell’uomo. Obbiettivo di questi trials è valutare la somministrazione di questi antibiotici in tutte quelle persone –come il caso dei fratelli australiani - portatrici dalla mutazione che potrebbero sviluppare la malattia. Non una cura ma una sorta di “profilassi” per ritardare il più possibile i sintomi dovuti all’accumulo della proteina prionica.

sabato 6 agosto 2016

Telethon, un modello di ricerca di eccellenza da replicare

Un modello di finanziamento alla ricerca che sia di esempio per il paese, è questo il messaggio alle istituzioni lanciato dalla Fondazione Telethon in occasione dell’evento “Come ricerca e innovazione possono diventare un volano per l’economia del Paese” che si  è svolto presso l’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Sono intervenuti il direttore del Tigem Andrea Ballabio, il direttore generale della Fondazione Telethon Francesca Pasinelli, il presidente della Fondazione Telethon Luca Cordero di Montezemolo, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.
Fin dai primi anni della sua attività la Fondazione Telethon ha deciso di investire i fondi raccolti, non solo mettendoli a disposizione dei ricercatori italiani grazie a bandi competitivi che premiano il merito, ma anche attraverso due istituti dedicati allo studio delle malattie genetiche rare: l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina Tigem di Pozzuoli e l’Istituto San Raffaele – Telethon (SR-Tiget) di Milano.

Questa scelta nasce proprio dalla volontà della Fondazione Telethon di assicurare un investimento costante e di lungo periodo a programmi di ricerca dedicati allo studio delle malattie genetiche rare e allo sviluppo di terapie mirate e innovative, prima fra tutte la terapia genica. Un approccio premiato da una crescita costante della produttività scientifica e della capacità di attrarre finanziamenti internazionali e industriali, grazie a un monitoraggio costante dei risultati, il reclutamento diretto dei ricercatori e lo sviluppo di facilities per la ricerca. Non è un caso quindi che Telethon sia la sola charity italiana “titolare” di una vera e propria pipeline di sviluppo, ovvero un programma consistente di strategie terapeutiche mirate per diverse malattie genetiche rare. Porta infatti la firma di Telethon la prima terapia genica con cellule staminali resa disponibile sul mercato, Strimvelis, e diverse altre sono in fase avanzata di sperimentazione o stanno per entrare nella fase di studio clinico sui pazienti.

Risultati d’eccezione, resi possibili da una visione strategica che affianca a una selezione rigorosa dei progetti di ricerca, competenze in tutti quei settori che rendono possibile la reale traslazione alla clinica: tutela della proprietà intellettuale, alleanze strategiche con il mondo dell’industria farmaceutica, competenze regolatorie e di sviluppo clinico.

Esempio concreto dell’applicazione del modello di finanziamento Telethon e allo stesso tempo di come in Italia sia possibile fare ricerca di eccellenza è il Tigem, il primo istituto fondato da Telethon nel 1994, ubicato nell’area dove un tempo sorgeva il prestigioso stabilimento Olivetti. In 22 anni di attività il Tigem ha dimostrato di saper capitalizzare il finanziamento di Telethon di oltre 67 milioni di euro ottenendo finanziamenti esterni, italiani, internazionali e industriali, che dal 1999 ad oggi ammontano a circa 70 milioni di euro.

Degna di nota è la capacità dell’istituto di ottenere i prestigiosi grant ERC: degli 86 finanziamenti assegnati fra il 2007 e il 2015 nel settore delle scienze della vita a ricercatori attivi in Italia (esclusi cioè quelli assegnati a ricercatori italiani attivi però all’estero), 8 sono stati assegnati a ricercatori del Tigem per un totale di circa 15 milioni di euro: si tratta del 9% di tutti i finanziamenti ERC assegnati all’Italia e il 70% di quelli della Campania.

Questa capacità attrattiva si è tradotta anche in nuovi posti di lavoro ad alta specializzazione. Nel 1994 i ricercatori erano meno di 70, mentre attualmente sono 210, molti assunti nel corso degli ultimi due anni: venti in particolare sono gli stranieri che hanno deciso di trasferirsi in Italia per condurre qui la loro ricerca.

Il Tigem vanta anche importanti accordi industriali, primo fra tutti quello siglato nel 2012 con la multinazionale farmaceutica Shire, per un finanziamento totale di circa 17 milioni di euro per sviluppare approcci di terapia genica o farmacologica su malattie rare di tipo neurodegenerativo e da accumulo lisosomiale.

Andrea Ballabio, direttore del Tigem, che ad oggi è l’unico ricercatore in Italia insignito del prestigioso premio Louis-Jeantet (2016), ha spiegato: “Molte sono le scoperte fatte al Tigem sui meccanismi alla base delle malattie genetiche. Inoltre, il nostro Istituto oggi è un vero centro di ricerca traslazionale, dove le scoperte fatte in laboratorio hanno la possibilità di tradursi in terapie. Ciò è avvenuto ad esempio con la terapia genica per malattie rare come l’amaurosi congenita di Leber, una forma di cecità ereditaria. Stiamo inoltre per avviare uno studio clinico con terapia genica per il trattamento della mucopolisaccaridosi tipo VI, malattia caratterizzata da gravi problemi soprattutto a carico di ossa e articolazioni. Abbiamo anche dato vita a un progetto dedicato alle malattie senza diagnosi, il primo in Italia che si ispira ad analoghi programmi internazionali”.

Francesca Pasinelli, direttore generale della fondazione Telethon ha commentato: “I risultati raggiunti dall’Istituto Telethon di Pozzuoli sono la dimostrazione dell’efficacia di un modello di gestione del finanziamento della scienza. A ulteriore conferma vi è il recente successo dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano: per la prima volta al mondo è stata immessa in commercio ed è oggi disponibile per tutti i pazienti una terapia genica, Strimvelis, per la cura di una rara malattia genetica l’ADA-SCID che compromette gravemente il sistema immunitario dei bambini che ne sono colpiti. Un risultato reso possibile grazie a un’alleanza strategica con l’industria farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK). Negli Istituti Telethon si concretizzano competenza, valorizzazione del merito, innovazione, capacità di collaborazione tra pubblico e privato e coraggio negli investimenti: elementi che se fossero replicati su larga scala potrebbero permetterci di ambire a un ruolo di primo piano nel panorama internazionale, come molte volte auspicato ma non ancora messo in pratica”.

Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fondazione Telethon ha sottolineato: “Nell’attuale scenario che caratterizza l’Italia dove spesso prevale l’insoddisfazione o l’autocommiserazione per quanto non funziona, esistono realtà di cui andare orgogliosi che dimostrano come anche in Italia si possano valorizzare le competenze e i ‘cervelli’ formati nelle nostre Università. La Fondazione Telethon ne è un esempio. Uno dei problemi del nostro Paese è la scarsa capacità di utilizzare nella maniera più produttiva le risorse disponibili. Non di rado sono stati restituiti all’Europa fondi inutilizzati. L’Istituto Telethon di Pozzuoli, al contrario, ha dimostrato di saper ben spendere i finanziamenti ottenuti. Se la ricerca scientifica italiana lavorasse con gli stessi parametri di produttività e la stessa capacità dei ricercatori Telethon di attrarre fondi, si creerebbe un valore tale da rendere la ricerca davvero un volano di crescita e sviluppo economico”.

La Fondazione Telethon ha investito in ricerca dalla sua nascita oltre 450 milioni di euro, ha finanziato oltre 2500 progetti con oltre 1500 ricercatori coinvolti e più di 470 malattie studiate. Ad oggi grazie a Telethon sono state messe a punto terapie per alcune malattie rare prima considerate incurabili (ADA-SCID, leucodistrofia metacromatica e sindrome di Wiskott Aldrich). Per altre malattie, inoltre, sono in corso o in fase di avvio studi clinici per la valutazione di nuove terapie, mentre continua nei laboratori finanziati da Telethon lo studio dei meccanismi di base e di potenziali approcci terapeutici per patologie ancora senza risposta.

O.MA.R. (Osservatorio MAlattie Rare) - Autore: Redazione

lunedì 25 luglio 2016

Insonnia, per recuperare una notte in bianco meglio non fare nulla. Un esperto del sonno spiega perché

Una notte insonne è quanto di più odioso possa capitare, soprattutto d'estate. Ci si gira e rigira nel letto in attesa del sonno, che non arriva. E il giorno dopo si va al lavoro con le occhiaie e senza forze. Per recuperare si cerca allora di schiacciare un pisolino durante il pomeriggio o di andare a letto presto la sera successiva. Niente di più sbagliato. Come spiega il dottor Micheal Perlis, del "Behavioral sleep medicine program" alla Perelman School of Medicine della University of Pennsylvania, al Wall Street Journal ciò che bisogna fare durante e dopo una notte insonne è semplice: nulla. Solo così si ristabilirà un equilibrio: "Non dormite fino a tardi il mattino successivo, non schiacciate un pisolino e non andate a dormire presto la sera e vedrete che tutto tornerà a posto".
A quanto pare, dunque, è la routine a garantire sonni tranquilli: se qualcosa va ad alterarla, basta cercare di stabilizzarla al più presto. La mancanza di concentrazione, gli occhi che si chiudono, la stanchezza possono essere i tipici sintomi del "giorno dopo": si tratta di sopportarli per un giorno intero, un giorno soltanto, se si riuscirà a non correre subito ai ripari e a non cedere al bisogno di fare un riposino o di posticipare la sveglia.


"Cercare di compensare il sonno perso può peggiorare l'insonnia cronica perché rende più difficile addormentarsi la notte successiva", ha spiegato Perlis tempo fa a "Science of Us". "Le persone sono molto concentrate sulle ore di sonno che riescono a dormire. In questo modo dimenticano che ciò che le rende esauste non sono le sole sei ore dormite. Aspettare il sonno, rimanere a letto nel bel mezzo della notte fissando il soffitto: è questo ciò di cui bisogna sbarazzarsi". E per riuscirci c'è un solo modo: non fare nulla.


Huffington Post - di Ilaria Betti
Pubblicato il 14/07/2016

venerdì 24 giugno 2016

I segreti del sonno

Passiamo un terzo della vita dormendo. Ma dopo anni di ricerche non sappiamo ancora con esattezza perché.

Cheryl Dinges ha 29 anni, viene da St. Louis, ed è un sergente dell'esercito americano. Il suo lavoro è addestrare i soldati ai combattimenti corpo a corpo. Esperta di jujitsu, Dinges afferma di essere una delle poche donne dell'esercito abilitate al combattimento di secondo livello, che consiste, spiega, in un lungo addestramento al combattimento uno contro due.

Ma negli anni a venire il sergente Dinges potrebbe dover affrontare una battaglia ben più dura. La sua famiglia infatti è portatrice del gene dell'"insonnia familiare fatale", o Iff. Il sintomo principale di questa malattia è l'impossibilità di dormire. All'inizio si perde la capacità di schiacciare sonnellini, poi di dormire tutta la notte, infine di dormire del tutto. La sindrome di solito compare intorno ai 50 anni, dura all'incirca un anno, e, come indica il nome, finisce con la morte del paziente. Dinges ha rifiutato di sottoporsi al test per individuare il gene della malattia. "Avevo paura che, sapendo di averla, non mi sarei impegnata così tanto nella vita, che mi sarei arresa".

La Iff è una malattia terribile, resa ancora peggiore dal fatto che ne sappiamo molto poco. Dopo anni di studio, i ricercatori
sono arrivati a capire che nei pazienti affetti da Iff, proteine malformate chiamate prioni attaccano il talamo, una struttura posta all'interno del cervello, e che un talamo danneggiato interferisce con il sonno. Purtroppo i ricercatori ignorano perché avvenga e come impedirlo, o come alleviare i sintomi della malattia. Prima che si cominciasse a studiare la Iff, molti non sapevano neppure che il talamo fosse collegato ai meccanismi del sonno. La Iff è una malattia estremamente rara, nota solo in 40 famiglie nel mondo, ma ha qualcosa in comune con le forme meno gravi di insonnia che affliggono milioni di persone: è ancora un mistero.


Se non sappiamo perché non riusciamo a dormire, è anche perché ignoriamo la ragione per cui abbiamo bisogno di farlo. Sappiamo che se non dormiamo il sonno ci manca, e che per quanto cerchiamo di resistergli, alla fine ne siamo vinti. Sappiamo che da sette a nove ore dopo che ci arrendiamo siamo quasi tutti pronti a rialzarci dal letto e che, da 15 a 17 ore dopo, siamo di nuovo stanchi. Da mezzo secolo sappiamo anche che il nostro riposo si divide tra fasi di sonno a onde lente e fasi di cosiddetto sonno Rem (rapid eye movement), durante il quale il cervello è attivo come quando siamo svegli ma i nostri muscoli volontari sono paralizzati.

Sappiamo che tutti i mammiferi e i volatili dormono. Il delfino lo fa con metà del cervello sveglia, così può continuare a controllare il suo ambiente subacqueo, e quando i germani reali dormono in fila, i due individui alle estremità riescono a mantenere metà del cervello vigile, e un occhio aperto, per proteggersi dai predatori. Anche i pesci, i rettili e gli insetti praticano una forma di riposo.

Questa inattività ha un prezzo. Gli animali devono restare a lungo immobili, diventando facili prede. Che vantaggio offre quindi? "Se non ha alcuna funzione vitale", ha detto lo studioso Allan Rechtschaffen, "allora il sonno è il più grosso errore che l'evoluzione abbia mai fatto".

La teoria prevalente sul sonno è che sia necessario al cervello. Un'idea dettata dal buon senso: chi non si sente più lucido dopo una bella nottata di sonno? Il problema è supportare questa ipotesi con i dati. In che modo il sonno aiuta il cervello? La risposta può variare a seconda del tipo di sonno di cui si parla. Di recente, ad Harvard, una équipe guidata da Robert Stickgold ha sottoposto gli studenti a una serie di test, poi li ha fatti dormire un po' e li ha sottoposti a nuovi test: quelli che erano entrati nella fase Rem hanno dato risultati migliori nel riconoscimento delle strutture (ad esempio quelle grammaticali), mentre gli studenti entrati in una fase di sonno profondo andavano meglio nella memorizzazione.

Altri ricercatori hanno scoperto che nel sonno il cervello ripete lo stesso schema di firing neuronale (il meccanismo di trasmissione del segnale tra neuroni) di un soggetto appena sveglio, come se, nel sonno, il cervello cercasse di affidare alla memoria a lungo termine le cose apprese durante la veglia.
Queste ricerche fanno pensare che una funzione del sonno possa essere il consolidamento della memoria. Qualche anno fa Giulio Tononi, studioso del sonno dell'Università del Wisconsin a Madison, ha pubblicato un'interessante variazione di questa teoria: durante il sonno il cervello eliminerebbe le sinapsi e le connessioni ridondanti o non necessarie. Lo scopo del sonno potrebbe essere quindi quello di aiutarci a ricordare ciò che è importante e a dimenticare quello che non lo è.

È probabile che il sonno abbia anche funzioni fisiologiche: il fatto che i pazienti affetti da Iff non vivano mai a lungo è significativo. Cosa sia esattamente a ucciderli suscita molto interesse, benché ancora non si sappia. Muoiono direttamente per effetto della privazione del sonno? E se non è così, fino a che punto l'insonnia contribuisce a creare le condizioni che li uccidono? Alcuni ricercatori hanno scoperto che nei ratti la privazione del sonno rallenta la cicatrizzazione, mentre per altri il sonno aiuta a rinforzare il sistema immunitario e a combattere l'insorgere di malattie infettive. Ma i risultati non sono ancora definitivi.

In un celebre esperimento degli anni Ottanta, Rechtschaffen costrinse alcuni ratti a rimanere svegli nel suo laboratorio dell'Università di Chicago mettendoli su un disco ruotante sospeso sopra un recipiente pieno d'acqua. Appena i ratti si addormentavano, il disco si ribaltava facendoli cadere nell'acqua, e loro immediatamente si risvegliavano. Dopo circa due settimane di questo trattamento, i ratti erano tutti morti. Ma quando Rechtschaffen effettuò l'autopsia sulle cavie, non riuscì a trovare nulla che non andasse. Gli animali non presentavano organi danneggiati. Tutto faceva pensare che fossero morti per sfinimento, cioè per non aver più dormito. Neppure un ulteriore esperimento svolto nel 2002 con strumenti più sofisticati riuscì a individuare nei ratti "una chiara causa di morte".

Oggi in pensione dopo 50 anni di ricerca sul sonno, William Dement è uno degli scopritori della fase Rem nonché cofondatore dello Stanford Sleep Medicine Center. Gli chiedo perché dormiamo. "Per quanto ne so", risponde, "l'unica ragione scientificamente provata per cui abbiamo bisogno di dormire è che ci viene sonno".

Sfortunatamente, non è sempre vero il contrario: non sempre ci viene sonno quando abbiamo bisogno di dormire. Nel mondo sviluppato l'insonnia ha una diffusione epidemica. Sono da 50 a 75 milioni, quasi un quinto della popolazione, gli americani che accusano problemi di insonnia. In Italia a soffrirne sono 12-15 milioni (soprattutto donne), di cui 5-6 in forma grave, ovvero da compromettere le attività diurne, la salute e l'umore. Malgrado ciò, si fa davvero poco per comprendere le cause principali dell'insonnia. Gli studenti di medicina seguono giusto qualche ora di tirocinio sui disturbi del sonno, e alcuni neanche quelle.

I costi sociali ed economici derivanti dall'inadeguatezza del trattamento terapeutico dell'insonnia sono enormi. L'Institute of Medicine, un organismo nazionale indipendente di consulenza scientifica, stima che quasi il 20 per cento dei più gravi incidenti tra veicoli a motore sia stato causato dalla sonnolenza di un guidatore. Questo dato colloca il costo medico diretto del nostro debito collettivo di sonno sui dieci miliardi di dollari. Le perdite in termini di calo della produttività lavorativa sono ancora maggiori. E infine ci sono i costi più lievi: relazioni personali compromesse o fallite, opportunità di lavoro perse, e incapacità di godere dei piaceri della vita.

Se esistesse un problema sanitario di tali proporzioni legato a una funzione fisica meno  oscura e misteriosa, i governi gli avrebbero già dichiarato guerra. Purtroppo il National Institutes of Health riserva alla ricerca sul sonno un contributo di soli 230 milioni di dollari l'anno: una cifra paragonabile a quella che nel 2008 le aziende produttrici di due noti sonniferi avrebbero speso per una sola stagione di pubblicità televisiva.

Anche le forze armate spendono soldi nella ricerca sul sonno, ma il loro principale interesse è quello di tenere i soldati svegli e pronti al combattimento, non certo di assicurare loro un buon riposo notturno. Il risultato è che la lotta contro l'insonnia è lasciata perlopiù all'iniziativa delle aziende farmaceutiche e dei centri per la cura dei disturbi del sonno.

Lo sleep medicine center di Stanford, fondato nel 1970, è stata la prima struttura dedicata al problema dell'insonnia negli Stati Uniti, ed è ancora oggi una delle più autorevoli. Il centro visita più di 10 mila pazienti all'anno e ogni anno conduce più di 3.000 monitoraggi notturni del sonno. Le 18 stanze destinate ai pazienti hanno un aspetto accogliente, con letti morbidi e confortevoli. Le apparecchiature per il monitoraggio sono nascoste negli arredi.

Il principale strumento diagnostico è il polisonnogramma, e l'elemento più importante del polisonnogramma è l'elettroencefalografo (Eeg), che registra l'attività bioelettrica del cervello dei pazienti mentre dormono. Quando ci addormentiamo, l'attività del nostro cervello rallenta, e il suo tracciato elettrico muta da onde brevi e frastagliate a onde più lunghe e morbide, come il moto ondoso del mare che si appiana man mano che ci si allontana dalla costa. Nel cervello queste onde morbide sono interrotte da una ripresa dell'attività mentale eccitata tipica della fase Rem, quella in cui (per ragioni ignote) svolgiamo quasi tutta la nostra attività onirica.       

Mentre l'Eeg registra quest'attività, il polisonnogramma misura temperatura, attività muscolare, movimento oculare, ritmi cardiaci e respiro. Poi si analizzano i dati in cerca di segnali di sonno anormale o risvegli frequenti: chi soffre di narcolessia, ad esempio, piomba dallo stato di veglia alla fase Rem senza passaggi intermedi. Il malato di insonnia familiare fatale, invece, non riesce mai ad andare oltre le prime fasi del sonno, e la sua temperatura corporea si alza e si abbassa bruscamente.

Iff e narcolessia non possono essere diagnosticate senza l'Eeg e altri strumenti di monitoraggio. Ma Clete Kushida, il direttore della clinica, mi dice che il più delle volte riesce a individuare i problemi del sonno dei pazienti già al primo colloquio: ci sono quelli che non riescono a tenere gli occhi aperti, e quelli che non parlano d'altro che della loro stanchezza ma non riescono neppure ad appisolarsi. I primi spesso soffrono di apnee notturne, gli altri di quella che Kushida chiama "vera insonnia".

In chi è affetto da apnee ostruttive notturne, il rilassamento muscolare che sopraggiunge con il sonno fa chiudere il tessuto molle della gola e dell'esofago, ostruendo il passaggio dell'aria. Quando il cervello realizza che non sta più ricevendo ossigeno, manda al corpo un segnale d'emergenza per farlo risvegliare. Il paziente si sveglia, prende fiato, il cervello viene ossigenato, e si riaddormenta. Per chi soffre di apnee, il sonno notturno diventa in effetti una successione di mini-pisolini. Le apnee notturne sono la voce più cospicua del business legato al sonno. John Winkelman, del Brigham and Women's Hospital, afferma che il disturbo viene diagnosticato a due terzi dei pazienti esaminati presso il suo centro.

Quello delle apnee notturne è un problema serio, che fa aumentare il rischio di attacchi di cuore e di ictus cerebrale. Ma è solo indirettamente una malattia del sonno. I veri malati di insonnia - ai quali viene diagnosticata quella che alcuni specialisti chiamano insonnia psicofisiologica - sono persone che, per motivi ignoti, o non si addormentano o non riescono a restare addormentate. Si svegliano e non si sentono riposate. Vanno a letto ma il loro cervello continua a rullare. Questo gruppo costituisce circa il 25 per cento dei pazienti esaminati nelle cliniche del sonno.

Mentre le apnee si possono curare con uno strumento che forza l'aria nella gola del paziente addormentato per tenergli aperte le vie respiratorie, la cura dell'insonnia classica non è così semplice. L'agopuntura può giovare: nella medicina asiatica viene usata da tempo a tale scopo, ed è attualmente studiata dal centro per i disturbi del sonno dell'Università di Pittsburgh.

Di solito l'insonnia psicofisiologica viene curata in due fasi. Nella prima si utilizzano i sonniferi, che hanno quasi tutti l'effetto di aumentare l'attività del Gaba, un neurotrasmettitore che inibisce il livello generale di eccitazione e lo stato di vigilanza del corpo. Benché meno dannosi di un tempo, i sonniferi possono creare dipendenza. Molti di coloro che ne fanno uso lamentano che il sonno indotto dai farmaci sembra diverso, e che al risveglio ci si sente come dopo una sbornia.

"I sonniferi non sono un modo naturale di dormire", conferma Charles Czeisler dell'Harvard Work Hours, Health and Safety Group. Anzi, in prospettiva, possono peggiorare il problema, provocando la cosiddetta insonnia di rimbalzo.

La seconda fase del trattamento dei malati di insonnia è la terapia cognitivo-comportamentale (Tcc). In questa terapia, uno psicologo specializzato insegna al paziente a pensare al proprio problema come a qualcosa di gestibile, persino di risolvibile (è la parte cognitiva) e a praticare una buona "igiene del sonno". Questa consiste perlopiù in una serie di pratiche ben collaudate, come dormire in una stanza buia, andare a letto solo quando si ha sonno, e non fare esercizio fisico prima di andare a dormire. Alcune ricerche hanno dimostrato che la Tcc è più efficace dei sonniferi nel trattamento dell'insonnia cronica, ma molti di coloro che ne soffrono non ne sono convinti.

Winkelman è convinto che la Tcc aiuti più certi tipi di malati di insonnia rispetto ad altri. L'insonnia comprende una gran varietà di condizioni: tra la Iff, che è estremamente rara, e le apnee notturne, che sono invece molto comuni, sono stati individuati quasi 90 disturbi del sonno, senza contare la miriade di motivi, più difficili da catalogare, per i quali le persone non riescono a dormire.

Alcuni soffrono della sindrome delle gambe senza riposo, un grave senso di insofferenza delle gambe che impedisce di prendere sonno, altri del disturbo da movimento periodico degli arti, che produce un involontario scalciare durante il sonno. I narcolettici spesso hanno difficoltà sia a dormire che a stare svegli. Poi ci sono le persone che non riescono a dormire perché sono depresse, e quelle che sono depresse perché non riescono a dormire.

C'è chi ha problemi ad addormentarsi per via della demenza o del morbo di Alzheimer, donne che dormono male durante il ciclo mestruale, altre durante la menopausa. Gli anziani in genere dormono meno bene dei giovani. Altre restano sveglie perché si preoccupano per il lavoro o temono di perderlo, un problema particolarmente sentito in periodi di crisi come quello attuale.

Di tutti questi insonni, quelli che non dormono per cause fisiche, probabilmente per eccesso o mancanza di vari neurotrasmettitori, sono quelli che rispondono meno alla Tcc. Eppure, la terapia cognitivo-comportamentale viene proposta come possibile cura per quasi tutti questi disturbi. Forse questo accade perché per molto tempo il problema dell'insonnia è stato soprattutto di competenza degli psicologi. Per loro, l'insonnia è quasi sempre causata da qualcosa di trattabile con i loro strumenti, come l'ansia o la depressione.

La Tcc chiede al paziente cosa c'è di sbagliato nel suo comportamento, non nel suo corpo. Winkelman vorrebbe invece che i due aspetti, quello fisico e quello mentale, venissero considerati assieme. "Il sonno è straordinariamente complicato", spiega. "Perché escludere che ci sia anche qualcosa che non va nei nostri circuiti?".

Se non riusciamo a dormire, forse è perché abbiamo dimenticato come farlo. In passato si dormiva in modo diverso, si andava a letto al tramonto e ci si alzava all'alba. Nei mesi invernali, quando c'era molto tempo per riposare, è probabile che i nostri antenati spezzassero il sonno, dormendo a più riprese. Nei paesi in via di sviluppo c'è ancora chi fa così. Si dorme in gruppi e, di tanto in tanto, nel corso della notte, ci si alza. C'è chi dorme all'aperto, dove fa meno caldo e l'effetto della luce solare sul ritmo circadiano è più diretto.

Nel 2002, Carol Worthman e Melissa Melby, della Emory University, hanno pubblicato una ricerca comparata sui diversi modi di dormire nelle diverse culture, e hanno osservato che tra i gruppi sociali dediti esclusivamente alla ricerca del cibo, come i !Kung e gli Efe, "i confini tra sonno e veglia sono molto fluidi". Non esiste un orario fisso per andare a dormire, e nessuno dice all'altro quando farlo. Chi dorme si alza quando il suo riposo è interrotto da una conversazione o un'esecuzione musicale che lo interessa, e alla quale può partecipare per poi tornare a dormire.

Nei paesi sviluppati nessuno dorme più così, perlomeno non di proposito. Andiamo a letto a un'ora più o meno prefissata, e dormiamo soli o con la persona con cui viviamo su morbidi materassi rivestiti da lenzuola e coperte. Oggi, rispetto a un secolo fa, si dorme in media circa un'ora e mezzo in meno a notte. Forse l'epidemia di insonnia che ci affligge dipende dal non voler prestare attenzione al nostro orologio biologico. I ritmi naturali del sonno degli adolescenti richiederebbero un risveglio in tarda mattinata, e invece eccoli lì, tutti a scuola alle 8.00 del mattino. L'operaio che fa il turno di notte e dorme al mattino va contro i ritmi ancestrali del suo corpo, che gli impongono di svegliarsi per cacciare o procurare cibo quando il cielo è inondato di luce.

È a nostro rischio e pericolo che combattiamo contro questi ritmi. A febbraio del 2009 un aereo in volo da Newark a Buffalo si è schiantato uccidendo tutti i 49 passeggeri a bordo e una persona che si trovava sul luogo dell'impatto. Nella giornata precedente il disastro, il copilota, e probabilmente anche il pilota, avevano dormito poco. Il National Transportation Safety Board è giunto alla conclusione che il loro rendimento "è stato probabilmente compromesso dalla stanchezza". Questo genere di notizie fa imbestialire Charles Czeisler: restare svegli per 24 ore, spiega, o fare solo cinque ore di sonno a notte per una settimana, equivale ad avere nel sangue un tasso alcolico pari allo 0,1 per cento. Eppure la moderna etica aziendale esalta simili comportamenti.

Dal 2004, Czeisler ha pubblicato su alcune riviste mediche una serie di rapporti basati su uno studio condotto dal suo gruppo di ricerca su 2.700 medici tirocinanti. Due volte a settimana questi giovani, uomini e donne, svolgono un turno di lavoro che dura 30 ore. La ricerca di Czeisler ha messo in luce il rischio, notevolmente alto, per la salute pubblica che questa privazione del sonno comporta. "Un tirocinante su cinque ha ammesso di aver compiuto per stanchezza un errore che ha danneggiato un paziente", racconta Czeisler. "E uno su 20 ha ammesso di aver compiuto, sempre per stanchezza, un errore che ha causato la morte di un paziente".

Quando Czeisler ha pubblicato questi dati, si aspettava che gli ospedali lo ringraziassero. Invece in molti hanno assunto una posizione difensiva. Czeisler pensa che non cambierà nulla finché i datori di lavoro non cominceranno a prendere sul serio i problemi legati all'insonnia e alla privazione del sonno. "Un giorno questo sistema sarà considerato incivile".

E ora parliamo della siesta. Il tradizionale riposo pomeridiano corrisponde a un naturale rallentamento postprandiale dei nostri ritmi circadiani, e alcuni studi hanno dimostrato che chi dorme un po' il pomeriggio è in genere più produttivo e forse meno esposto al rischio di cardiopatie mortali. A rendere famosa la siesta sono stati gli spagnoli, che però, sfortunatamente, non vivono più così vicini al posto di lavoro da potersi permettere di andare a casa a schiacciare un pisolino. Alcuni di loro invece impiegano la pausa pomeridiana per intrattenersi in interminabili pranzi al ristorante con amici e colleghi. Dopo aver trascorso due ore attorno a un tavolo, i lavoratori spagnoli sono costretti a lavorare fino alle sette o le otto della sera. E anche dopo, non tornano sempre a casa, ma vanno a bere o a cenare fuori.

Negli ultimi tempi gli spagnoli hanno cominciato a prendere sul serio il problema della privazione del sonno. Oggi ad esempio la polizia chiede ai guidatori coinvolti in gravi incidenti stradali quanto avevano dormito la notte prima, e il governo ha di recente imposto ai lavoratori statali turni di lavoro più brevi per cercare di farli rientrare a casa prima.

Ciò che ha indotto la Spagna a prendere questo genere di provvedimenti non è stato tanto il tasso di frequenza degli incidenti (fra i più alti d'Europa) quanto il ristagno produttivo del paese. Gli spagnoli passano più tempo degli altri al lavoro, ma la loro produttività è inferiore a quella di quasi tutti i loro vicini europei. "Una cosa è accumulare ore sul cartellino, un'altra svolgere il proprio lavoro", ha ammonito dalle pagine di un quotidiano madrileno Ignacio Buqueras y Bach, l'uomo d'affari spagnolo che guida il tentativo di mandare i suoi connazionali a letto prima. "Ogni tanto dobbiamo chiudere gli occhi", dice Buqueras, "non siamo mica macchine".

Nel 2006 una commissione formata da Buqueras è entrata a far parte del governo spagnolo. Qualche tempo fa ho avuto l'opportunità di assistere a un incontro della commissione nell'edificio annesso al Congreso de los Diputados, la camera bassa spagnola. Si parlava di incidenti provocati da lavoratori esausti, delle donne spagnole estenuate da lunghe ore di lavoro e faccende domestiche, e di bambini privati delle necessarie 10-12 ore di sonno. Ai membri della commissione veniva chiesto di contattare le reti televisive per chiedere di anticipare il palinsesto di prima serata.

Buqueras cercava di tenere alto il ritmo del dibattito, invitando gli oratori alla brevità. Ma le luci erano basse, faceva caldo, e tra gli astanti ha iniziato a diffondersi un certo torpore. Le teste si accasciavano sui petti, subito rialzate nel tentativo di resistere, le palpebre si facevano sempre più pesanti, mentre in sala si cominciava a scontare il debito di sonno di un'intera nazione.
 
 
di D.T. Max - Da National Geographic Italia, maggio 2010